Il nuovo intervento della Corte Costituzionale in tema di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo nelle imprese con più di quindici dipendenti

30 ago 2024

Avv. Marco Andrea Baudino Bessone

Con la recente sentenza n. 128 del 16 luglio 2024 la Corte Costituzionale è di nuovo intervenuta sul tema delle conseguenze riconnesse dalla Legge alla dichiarazione giudiziale di illegittimità dei licenziamenti individuali applicati dal datore di lavoro per (asserite) ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento (licenziamento per giustificato motivo oggettivo), dichiarando la, parziale, illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti): normativa applicabile ai rapporti di lavoro sorti o stabilizzati successivamente alla data del 7 marzo 2015.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale è riferita a quella parte della disposizione che non prevede che la tutela rafforzata della reintegrazione nel posto del lavoro (di cui al comma 1) si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nelle quali sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento stesso.

Tale pronuncia fa seguito alle precedenti decisioni n. 59 del 1° aprile 2021 e 125 del 19/5/2022 con le quali la Corte Costituzionale aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 comma 7 della Legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dalla L. 28 giugno 2012 n. 92 (c.d. Legge Fornero) sempre in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; normativa quest’ultima che trova invece applicazione con riferimento ai rapporti di lavoro sorti (o stabilizzati) anteriormente  alla data del 7 marzo 2015, di entrata in vigore del citato D.Lgs n. 23/2015.

In tale modo la Corte Costituzionale ha “completato” una vera e propria rivisitazione della materia, dichiarando, in sostanza, la parziale incostituzionalità del regime sanzionatorio “attenuato” che era stato previsto dal Legislatore del 2012 e 2015 per il caso di dichiarazione di illegittimità del licenziamento determinato da ragioni organizzative e produttive; regime che si differenziava nettamente da quello, più gravoso per il datore di lavoro e più tutelante per il lavoratore, che è previsto invece per il caso di dichiarazione di illegittimità del licenziamento applicato dal datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (e cioè adducendo un grave inadempimento da parte del lavoratore ai suoi obblighi lavorativi - c.d. licenziamento disciplinare -).

Dette pronunce della Corte Costituzionale costringono ora i pratici del diritto ad una rimeditazione della materia dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ed hanno comunque notevole rilevanza anche sotto il profilo pratico ed economico nella vita delle aziende.

Riteniamo dunque possa essere utile un, pur in questa sede necessariamente sintetico, approfondimento del tema.

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Come noto, prima dell’intervento legislativo del 2012 (Legge Fornero), la materia dei licenziamenti individuali era regolamentata dalla Legge 15 luglio 1966 n. 604 e, quanto alle imprese di maggiori dimensioni, con più di quindici dipendenti nell’ambito di ogni unità produttiva o comunque con più di sessanta dipendenti sul territorio nazionale,  dall’art. 18 della Legge 20 maggio 1970 n. 300 (il cosiddetto Statuto dei Lavoratori).

In virtù di tali disposizioni di legge, era riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato una tutela di natura reale nelle imprese che superassero  tali limiti dimensionali previsti dallo Statuto dei Lavoratori (e cioè: reintegrazione nel posto di lavoro e pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di reintegrazione) e di natura meramente obbligatoria in quelle di minori dimensioni  (a scelta del datore di lavoro, riassunzione del lavoratore ovvero pagamento di una indennità compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità di retribuzione globale di fatto); ciò, salvo il caso di inesistenza o nullità del licenziamento (nel quale valeva sempre, anche  per le piccole imprese, l’obbligo di reintegrazione) e indipendentemente dalle ragioni in base alle quali l’illegittimità del licenziamento fosse dichiarata (insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo od oggettivo; non proporzionalità della sanzione applicata; mere ragioni di illegittimità formale del provvedimento di licenziamento; ecc…).

Per le imprese di più grandi dimensioni il regime sanzionatorio era dunque sostanzialmente uniforme e si applicava la stessa normativa sia nel caso di licenziamento disciplinare che nel caso di licenziamento economico.

Tale normativa (risalente alla fine degli anni sessanta ed all’inizio degli anni settanta del secolo scorso) era però nel tempo stata oggetto di numerose (e, ad avviso di chi scrive, non infondate) critiche in quanto la stessa era ritenuta da molti esperti del settore:

- troppo tutelante per i lavoratori dipendenti delle imprese di più grandi dimensioni, a scapito di quelli che sono addetti alle piccole imprese;

- troppo rigida, venendo applicato lo stesso regime sanzionatorio a casi e situazioni anche completamente differenti;

- in definitiva anche disincentivante, per le grandi imprese, alla stipula di contratti di lavoro a tempo indeterminato, se non addirittura costituente un freno per le stesse ad investire / avviare nuove attività in Italia (tenuto conto che il mercato del lavoro, soprattutto nei Paesi anglosassoni e in quelli dell’Est europeo, risulta invece molto più flessibile);

- in ogni caso non più adeguata alle mutate condizioni del mondo del lavoro.

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Accogliendo in parte tali motivazioni, il Legislatore del 2012 è dunque intervenuto una prima volta nella materia, in particolare con una radicale e molto articolata rivisitazione del testo dell’art. 18 della Legge n. 300 del 20 maggio 1970 ed ha introdotto un regime sanzionatorio molto differenziato a seconda del tipo di licenziamento applicato (per giusta causa e giustificato motivo soggettivo ovvero per giustificato motivo oggettivo) ed a seconda delle ragioni della dichiarazione di illegittimità (nullità del licenziamento per contrarietà a norme imperative, infondatezza del licenziamento ovvero sua illegittimità per meri vizi formali).

Tale modifica, si noti, riguarda peraltro l’ambito dei rapporti di lavoro nelle grandi imprese; mentre nelle piccole imprese è sempre rimasto sostanzialmente immutato il previgente regime di tutela meramente obbligatoria del rapporto di lavoro, che resta disciplinato dall’art. 8 della legge 16/7/1966 n. 604.

Con riferimento a tale ambito (delle imprese più grandi, che superano i limiti dimensionali sopra indicati), e venendo a quello che qui specificamente interessa, e cioè alla differente disciplina delle conseguenze riconnesse alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento, occorre rilevare che, a seguito di tale novella, mentre nel caso di illegittimità del licenziamento disciplinare era stato conservato un regime (sia pur attenuato sotto il profilo risarcitorio) di sostanziale stabilità reale del rapporto di lavoro, comportando la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, l’obbligo di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, non così era più previsto per il caso  di dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato per ragioni organizzative e produttive.

Infatti, la norma dell’art. 18 comma 7 della Legge n.  300/1970 (come modificata dalla Legge Fornero) prevedeva che, salvo sempre il caso di inesistenza o radicale nullità del licenziamento per contrarietà a norme imperative, l’ordine di reintegrazione potesse essere disposto dal Giudice solo nel caso “si accertasse la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

In tutti gli altri casi il Giudice doveva “invece limitarsi a dichiarare risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e a condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto” (così il testo della norma prima degli interventi della Corte Costituzionale di cui si dirà meglio infra).

Sulla base delle medesime motivazioni, con il successivo D.Lgs 4/3/2015 n. 23 il Legislatore ha poi introdotto un nuovo regime di tutela applicabile ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato stipulati o stabilizzati dopo la data del 7 marzo 2015 (ovvero di superamento da parte dell’azienda, dopo tale data, del limite dimensionale dei quindici e sessanta dipendenti).

Secondo tale normativa (art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015) e salvo sempre i casi di inesistenza o radicale nullità del licenziamento:    

  • l’ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro poteva/doveva essere disposto dal Giudice solo nel caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (licenziamento disciplinare), e solo nel caso in cui risultasse dimostrata in giudizio, “l’inesistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”;
  • in tutti gli altri casi di accertamento della carenza dei presupposti del licenziamento, e dunque in tutti i casi di dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, era solo più previsto (ferma la risoluzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento) il diritto del lavoratore ad ottenere il riconoscimento di una indennità risarcitoria.

La misura di tale indennità era inizialmente prevista dalla predetta disposizione in una somma non inferiore a quattro e non superiore alle ventiquattro mensilità di retribuzione; tale misura è stata successivamente aumentata dall’art. 3, comma 1 del D.L. 18/7/2018 n. 87, ad una somma non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità di retribuzione.

Le ragioni della applicabilità della nuova normativa solo ai nuovi rapporti di lavoro (e non a quelli sorti prima del 7 marzo 2015) è probabilmente da ricollegarsi alla volontà del Legislatore di non incidere sulle situazioni pregresse ed evitare così un eccessivo impatto della normativa sul piano dei rapporti sociali.

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La scelta del Legislatore di differenziare il regime di tutela previsto nei casi di illegittimità del licenziamento individuale applicato per ragioni organizzative e produttive rispetto a quello previsto per il caso di illegittimità del licenziamento individuale applicato per motivi disciplinari era ed è, ad avviso di molti degli interpreti (ed anche di chi scrive), per molti aspetti condivisibile.

Infatti, in primo luogo, è innegabile che il licenziamento disciplinare abbia, per il lavoratore, un impatto molto più forte sulla sua persona e sulla vita lavorativa, rispetto a quello per giustificato motivo oggettivo, essendo nel primo caso, e non nel secondo, messa in discussione la sua onestà/professionalità/capacità lavorativa, e potendo, esso licenziamento disciplinare, anche implicare una successiva sua difficoltà nel ritrovare altro differente posto di lavoro.

In secondo luogo, risulta, nella prassi, molto più agevole per le parti provare, e per il Giudice  accertare, in sede giudiziale, la effettiva sussistenza o la inesistenza del singolo fatto o comportamento addebitato al lavoratore in un caso di licenziamento disciplinare, che non la sussistenza o inesistenza delle ragioni organizzative o produttive che vengano allegate a motivazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo: ciò specie in realtà e dinamiche complesse quali possono realizzarsi in aziende di grandi dimensioni od addirittura multinazionali.

In terzo luogo, divenendo la “materia del contendere”, nel caso di impugnativa del licenziamento per motivi organizzativi e produttivi, non il posto di lavoro, ma solo la spettanza e l’entità dell’indennità cui il lavoratore ha eventualmente diritto, si rendeva estremamente agevole, nella pratica, ritrovare tra datore di lavoro e lavoratore una soluzione conciliativa della vertenza; tanto più dovendo il datore di lavoro avente i requisiti dimensionali per l’applicabilità dell’art. 18 della Legge 300/1970, necessariamente ricorrere alla procedura preventiva di composizione di fronte all’Ispettorato del Lavoro che era al contempo stata introdotta dalla Legge 28/6/2012 n. 92 e che è espressamente prevista e disciplinata dall’art. 7 della Legge n. 604 del 15/7/1966 come modificato da tale novella. E la definizione rapida e stragiudiziale di tali contenziosi consente alle parti di riprendere (senza eccessivi strascichi) la loro rispettiva vita, lavorativa o d’impresa, e ha, nel contempo, anche un rilevante effetto deflattivo sul carico di lavoro dei Tribunali.

Infine, osserviamo noi, l’eventuale obiezione secondo cui il datore di lavoro potrebbe essere tentato, per evitare il rischio di dovere in futuro reintegrare il lavoratore in azienda, di “travestire” un licenziamento disciplinare (se non addirittura discriminatorio), motivandolo come giustificato da ragioni organizzative e produttive, non appare pertinente; in quanto, in questi casi limite, la sostanza del licenziamento prevarrebbe sulla sua forma: e dunque il licenziamento sarebbe comunque soggetto alle sanzioni previste per il caso di nullità / illegittimità del licenziamento discriminatorio o disciplinare.

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Orbene, tale sistema, voluto dal Legislatore, e con la quale la tutela spettante al lavoratore in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, era divenuta di natura sostanzialmente obbligatoria (e cioè solo risarcitoria) è stato come detto “scardinato” dalle tre decisioni della Corte Costituzionale sopra richiamate.

Più precisamente, con le prime due decisioni, la n. 59 del 1/4/2021 e la n. 125 del 19/5/2022 la Corte Costituzionale era intervenuta sul testo dell’art. 18 comma 7 della Legge n. 300/1970, come modificato dalla “Riforma Fornero” dichiarando la illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui: i)  subordinava al requisito della “manifesta” inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la possibilità di pronuncia dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro; ii) e nella parte in cui demandava al giudice il potere (ritenuto sostanzialmente discrezionale) se applicare in tale caso la misura dell’ordine di reintegrazione ovvero quella soltanto indennitaria.

La Corte è giunta a tali dichiarazioni di incostituzionalità sulla base del rilievo che sarebbero altrimenti rimasti indeterminati i criteri sulla base dei quali il Giudice avrebbe dovuto ovvero potuto applicare l’una o l’altra misura (reintegra o mero risarcimento) con conseguente potenziale lesione del principio costituzionale di uguaglianza a fronte di situazioni sostanzialmente identiche.

In tale modo, la tutela prevista per il caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata di fatto equiparata a quella prevista per il caso di illegittimità del licenziamento disciplinare: nel quale caso la tutela reale (reintegrazione del posto di lavoro) era già prevista per l’appunto in tutti i casi in cui fosse risultata l’infondatezza del fatto contestato al dipendente in sede disciplinare.

Detto intervento della Corte Costituzionale, impattava sul testo dell’art. 18 della Legge 300/1970; norma, lo ricordiamo, applicabile ai rapporti sorti (o stabilizzati) anteriormente alla data del 7 marzo 2015.

Restava dunque aperta la questione relativa ai licenziamenti di lavoratori il cui rapporto di lavoro fosse sorto dopo la predetta data: licenziamenti disciplinati dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 e per i quali la tutela, nel caso di dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, continuava ad essere come detto solo di natura obbligatoria.

Il tema è stato affrontato dalla Corte Costituzionale nella recentissima decisione n. 128 del 16 luglio 2024; e la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità (per contrasto con gli artt. 3 (principio di uguaglianza), e 4 e 35 (diritto e tutela del lavoro) della Costituzione anche dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alla parte della disposizione che non prevede che la tutela rafforzata della reintegrazione nel posto del lavoro (di cui al comma 1 dello stesso articolo) si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nelle quali sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento stesso.

Con ciò determinando, in pratica, anche per i rapporti di lavoro sorti (o stabilizzati) successivamente alla data del 7 marzo 2015, una reintroduzione del regime di tutela reale del rapporto di lavoro subordinato nelle medie e grandi imprese, e una sostanziale equiparazione delle conseguenze giuridiche della illegittimità del licenziamento nelle due diverse ipotesi di licenziamento disciplinare e di licenziamento per ragioni organizzative e produttive che il legislatore aveva invece voluto mantenere differenziate.

Si noti peraltro che, la Corte Costituzionale, forse preoccupata delle conseguenze concrete che tale sua decisione potrà determinare nel mondo del lavoro, si fa carico nel contempo però di precisare, in via interpretativa del testo dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23,  che nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per inesistenza del fatto materiale deve intendersi solo l’inesistenza delle ragioni di natura organizzativa o produttiva addotte dal datore di lavoro a motivazione del licenziamento; mentre resta estranea a tale fattispecie quella in cui le ragioni di natura organizzativa e produttiva che determinano la soppressione del posto di lavoro siano esistenti, ma non sia stato rispettato il requisito del cd “repechage”; e cioè non sia stata verificata la possibilità di ricollocamento del lavoratore in altra posizione. In tale diversa ipotesi, a dire della Corte, pur essendo il licenziamento illegittimo, sarebbe invece giustificata, e costituzionalmente legittima, la previsione di una conseguenza solo di natura risarcitoria a carico del datore di lavoro.

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Orbene, soprattutto questa ultima decisione della Corte Costituzionale, la n. 128 del 16 luglio 2024 desta nell’interprete e pratico del diritto, qualche perplessità. Ciò anche considerando che, nel testo  della motivazione della sentenza, la Corte più volte ha comunque modo di ripetere il principio da lei stessa anche in precedenza affermato che: i) il diritto del lavoratore alla reintegrazione del posto di lavoro  nel caso di illegittimità del licenziamento non ha rango costituzionale; e che ii) il Legislatore è libero di determinare e disciplinare anche in modo differenziato quali conseguenze (reintegrazione e/o mero risarcimento del danno) derivino dalla  dichiarazione di illegittimità del licenziamento, sula base di ragioni di opportunità politica, economica e sociale e purché la tutela del lavoratore risulti comunque adeguata e non sia lesa la sua dignità personale.  

La Corte Costituzionale è però e comunque giunta a tale decisione di illegittimità della norma in esame sulla base del rilievo che per l’effetto dei successivi interventi del Legislatore, e delle sue precedenti pronunce correttive, si era venuto a determinare “un difetto di sistematicità” (questo sì  effettivo ed indiscutibile) della disciplina complessiva “che  ridonda in una irragionevolezza della differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo”. Conclusione quest’ultima invece forse non condivisibile visto che le ragioni per una differenziazione fra le due ipotesi di licenziamento (disciplinare e per ragioni organizzative e produttive) sussistono, sono anche abbastanza evidenti e sono state sopra riassunte.  

Per altro verso, secondo la Corte “la discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un fatto insussistente, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare”.

Argomentazione, questa, che si presta invece alle obiezioni già sopra svolte riguardo alle conseguenze (nullità del licenziamento perché discriminatorio o comunque in frode alla legge) che deriverebbero da un siffatto illegittimo, se non illecito, comportamento del datore di lavoro.

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Ferme dunque le perplessità sopra evidenziate sulle motivazioni addotte dalla Corte a ragione di tale suo nuovo intervento, si deve comunque al momento prendere atto che, allo stato attuale, anche nel caso di licenziamento individuale motivato da ragioni organizzative e produttive, si ripresenta il rischio per il datore di lavoro (che abbia più di quindici dipendenti nell’unità produttiva interessata dal licenziamento o comunque più di sessanta dipendenti su ambito nazionale), nell’ipotesi di accertamento giudiziale della invalidità del licenziamento, di dover reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro al termine del contenzioso giudiziale.

Sotto altro profilo, pare auspicabile un nuovo intervento del Legislatore sul tema dei licenziamenti individuali, in modo che venga data una disciplina più uniforme alla materia (che crea comunque, oggi, non pochi problemi interpretativi a Giudici ed avvocati); magari anche eliminando quella differenziazione della disciplina applicabile ai rapporti di lavoro a seconda se siano sorti prima o dopo la data del 7 marzo 2015, che, a distanza di quasi dieci anni dall’entrata in vigore del Dlgs. 23/2015, pare non avere più ragione di essere.