Appunti in tema di riservatezza / segreto nelle procedure ADR non aggiudicative

15 mar 2021

APPUNTI IN TEMA DI

RISERVATEZZA / SEGRETO

NELLE PROCEDURE ADR NON AGGIUDICATIVE

 

Sommario

INTRODUZIONE. 2

IL NUOVO RUOLO DEI PROFESSIONISTI NELLA GESTIONE E RISOLUZIONE STRAGIUDIZIALE DEI CONFLITTI 2

LA CENTRALITÀ DELLA RISERVATEZZA NELLE PROCEDURE ADR. 4

L’OBBLIGO DI RISERVATEZZA NELLE PROCEDURE ADR NON AGGIUDICATIVE: IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO.. 4

LA MEDIAZIONE. 4

LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA.. 6

LA PRATICA COLLABORATIVA.. 7

LA PROCEDURA DI COMPOSIZIONE ASSISTITA DELLA CRISI D’IMPRESA   10

TRASPARENZA, RISERVATEZZA E DIRITTO DI DIFESA: UN FRAINTENDIMENTO COMUNE  13

OBBLIGHI DI RISERVATEZZA E LIMITI AL MANDATO PROFESSIONALE  17

L’AMBITO SOGGETTIVO DI ESTENSIONE DEL SEGRETO PROFESSIONALE NELLE PROCEDURE ADR NON AGGIUDICATIVE. 20

I SOGGETTI TENUTI AL RISPETTO DEGLI OBBLIGHI DI RISERVATEZZA.. 20

LE RESPONSABILITÀ CONSEGUENTI ALLA VIOLAZIONE DEL SEGRETO.. 21

L’AMBITO OGGETTIVO DI ESTENSIONE DEL SEGRETO PROFESSIONALE NELLE PROCEDURE ADR NON AGGIUDICATIVE. 22

I LIMITI ALL’UTILIZZABILITÀ DELLE DICHIARAZIONI RESE E DELLE INFORMAZIONI ACQUISITE NEL CORSO DELLE PROCEDURE ADR  23

TUTELA DELLA RISERVATEZZA E DIRITTO DI DIFESA.. 24

I LIMITI ALLA PROVA IN ORDINE ALLE INFORMAZIONI E DICHIARAZIONI RESE NEL CORSO DELLA PROCEDURA   25

LE DEROGHE AL PRINCIPIO DI RISERVATEZZA.. 26

 

 

 

 

 

L’evoluzione della normativa volta a disciplinare la risoluzione delle controversie in materia civile è segnata dal sempre più ampio e articolato ricorso a strumenti e procedure non giurisdizionali, affidati ai privati, con il coinvolgimento sempre più rilevate e strategico dei professionisti (ed in particolare degli avvocati).

Questa evoluzione si fonda su due ragioni fondamentali. La prima ragione è la constatazione della ormai cronica lentezza ed inefficienza della giustizia civile: situazione che, secondo le statistiche delle organizzazioni mondiali, contribuisce a posizionare l’Italia agli ultimi posti negli elenchi dei Paesi in cui può essere opportuno investire[1]. Da qui l’esigenza di deflazionare il contenzioso che affolla i tribunali italiani e velocizzare i processi, favorendo il raggiungimento di soluzioni conciliative al di fuori del processo.

La seconda ragione risiede nella consapevolezza (acquisita dal Legislatore italiano ed europeo anche alla luce delle esperienze maturate nei Paesi di common law) che la decisione pronunciata dall’autorità giudiziaria ha spesso il limite di intervenire quando il conflitto è ormai da tempo insorto e con la limitata funzione di risolvere, d’imperio, la controversia, attribuendo ragione (in tutto o in parte) ad una delle parti convolte nella disputa, senza rimuovere le cause profonde del conflitto. Inoltre la decisione del giudice, calata dall’alto ed emessa dal soggetto cui è stato affidato il compito di decidere chi ha torto e chi ha ragione, risolve la disputa ma demolisce il rapporto giuridico ed economico da cui la disputa è scaturita[2].

Sulla base di queste considerazioni il Legislatore è intervenuto più volte con l’emanazione di norme che hanno formalmente attribuito dignità giuridica a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie di tipo non aggiudicativo (come l’arbitrato), ma integrativo: che mirano, cioè, non alla decisione della controversia ma alla conciliazione delle parti attraverso una negoziazione volta al raggiungimento di un accordo.

Tra questi strumenti, tre assumono particolare rilevanza poiché sono stati assoggettati ad una disciplina che ha attribuito loro particolari prerogative.

Il primo strumento è quello della mediazione civile, introdotta dal D. Lgs. 28/2010.

Il secondo strumento è l’istituto della negoziazione assistita, introdotto dal D.L. 12 settembre 2014 n. 132 convertito in L. 10 novembre 2014 n. 162.

Il terzo strumento è la procedura di composizione assistita della crisi d’impresa regolata dagli artt. 16 e ss. Del Dlgs. 14/2019 (CCII), che dovrebbe entrare in vigore a decorrere dal 1/9/2021[3].

Nel solco di queste innovazioni si inserisce la “pratica collaborativa”: procedura di risoluzione dei conflitti elaborata negli Stati Uniti e sempre più diffusa anche in Italia, i cui principi si prestano in modo particolare a integrare e completare i canoni della negoziazione assistita[4].

L’affermazione, sempre più diffusa, di queste procedure di gestione e risoluzione alternativa dei conflitti da un lato è destinata a creare nuove aree di competenza e nuove opportunità di lavoro in settori di attività oggi spesso caratterizzati dal prevalere di mansioni routinarie e scar­samente incentivanti; d’altro lato offre un’occasione importante per esaltare il ruolo delle professioni liberali (in particolare degli Avvocati e dei Commercialisti) nella difesa del valore (economico, sociale, erariale) che l’impresa assume nell’economia contemporanea.

L’impiego di questo nuovo strumento impone tuttavia un cambiamento di mentalità ai professionisti che a vario titolo sono coinvolti nell’assistenza alle imprese, ed in particolare agli avvocati, spesso purtroppo ancorati ad una visione non più attuale della professione che vede nel conflitto una contrapposizione tra chi ha torto e chi ha ragione e individua nel rimedio giudiziale l’unica soluzione con cui far emergere le ragioni di chi è stato prevaricato o leso nei suoi diritti.

Occorrerà pertanto che i professionisti che intendono cogliere questa opportunità siano disponibili ad effettuare quel “cambio di paradigma” che è necessario per abbandonare i principi tradizionali della negoziazione distributiva e avversariale ed abbracciare la logica della negoziazione integrativa, basata sul perseguimento degli interessi e non sul mantenimento delle posizioni.

Il cambiamento che si richiede ai professionisti è tutt’altro che semplice, e richiederà un impegno significativo. Tuttavia, “trascurare il significato profondo degli sforzi fatti dal legislatore per introdurre nel nostro sistema legislativo metodologie alternative di composizione dei conflitti, significherebbe perdere un’occasione importante per mettere in evidenza e ricordare, anche a noi stessi, la funzione sociale dei professionisti ed il loro ruolo al servizio della collettività [5].

 

Una caratteristica fondamentale che accomuna le procedure ADR non aggiudicative è la riservatezza che caratterizza tutte le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite durante il procedimento.

La riservatezza è rafforzata dalla previsione, comune a tutti i procedimenti sopra riferiti, che le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso della procedura non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della procedura ADR, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni.

Inoltre sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio.

La disciplina della riservatezza comporta peraltro l’insorgere di numerose problematiche dai delicati risvolti operativi e applicativi: sia per quanto attiene all’ambito oggettivo e soggettivo di estensione dell’obbligo di riservatezza; sia per quanto attiene ai rapporti tra diritti/obblighi di riservatezza e diritto di difesa delle parti nel processo.

È utile quindi tentare di delineare i principi essenziali cui deve ispirarsi il professionista investito del compito (e della responsabilità) di gestire il procedimento (come mediatore) o di assistere la parte (come negoziatore) nella procedura di risoluzione stragiudiziale della controversia.

A tal fine occorre innanzitutto ricostruire il quadro normativo di riferimento.

 

La mediazione, disciplinata dal Dlgs. 28/2010, è definita all’art. 1 come “l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa[6].

La riservatezza è un presupposto essenziale della procedura di mediazione. Ed infatti, il ricorso alla mediazione sarebbe sicuramente visto con riluttanza dalle parti ove non fossero adottate le cautele necessarie per salvaguardare diritti, ragioni, azioni e difese delle parti[7].

Con riferimento al requisito della riservatezza, la legge introduce alcune disposizioni volte a garantire che quanto dichiarato dalle parti nel corso della procedura di mediazione non pregiudichi la possibilità di intraprendere la strada contenziosa nel caso in cui la conciliazione non riesca.

L’art. 3, nel prevedere che il procedimento di mediazione si svolga secondo il regolamento dell'organismo scelto dalle parti, stabilisce che “Il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell'articolo 9, nonché modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell'incarico”.

Per quanto attiene all’ambito soggettivo di estensione dell’obbligo di riservatezza, l’art. 9 del D. Lgs. 28/2010 stabilisce che “Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell'organismo o comunque nell'ambito del procedimento di mediazione è tenuto all'obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo[8].

Inoltre il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti “Rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni” (art. 9, D. Lgs. 28/2010).

Infine, “Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Al mediatore si applicano le disposizioni dell'articolo 200 del codice di procedura penale[9] e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell'articolo 103 del codice di procedura penale[10]in quanto applicabili”.

Per quanto attiene all’ambito oggettivo di estensione dell’obbligo di riservatezza, l’art. 10 stabilisce che “Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”.

 

La negoziazione assistita, introdotta dal D.L. 132/ 2014, conv. con L. 162/ 2014, è la procedura di risoluzione delle controversie che scaturisce dall’accordo “mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati iscritti all'albo [11].

Nella negoziazione assistita, l’obbligo di mantenere il segreto sui fatti di natura riservata conosciuti duranti le trattative deriva necessariamente dagli obblighi di lealtà e buona fede. Tali obblighi sono espressamente posti a carico delle parti e dei loro legali dall’art. 9 del Dl. 132/2014, il quale espressamente fa obbligo “agli avvocati e alle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute”.

La stessa disposizione, in analogia a quanto disposto in materia di mediazione, stabilisce che “Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto”.

Il dovere di riservatezza e di astensione dall’utilizzo in giudizio delle informazioni riservate acquisite nell’ambito della procedura di negoziazione assistita è poi ulteriormente rimarcato dal comma 4-bis dell’art. 9, che espressamente stabilisce che la violazione degli obblighi di lealtà e riservatezza e del divieto di utilizzare in giudizio le informazioni acquisite costituisce per l'avvocato illecito disciplinare.

A tutela della riservatezza, il comma 3 dell’art. 9 stabilisce che “I difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite”. Inoltre il comma 4 estende a tutti coloro che partecipano al procedimento le disposizioni dell'articolo 200 del codice di procedura penale[12] e le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell'articolo 103 del medesimo codice di procedura penale in quanto applicabili[13].

Per coerenza, a miglior precisazione degli obblighi di lealtà che competono agli avvocati coinvolti nella negoziazione, l’art. 9, comma 1, stabilisce che “I difensori non possono essere nominati arbitri ai sensi dell'articolo 810 del codice di procedura civile nelle controversie aventi il medesimo oggetto o connesse”. E l’art. 5, comma 4, stabilisce che “Costituisce illecito deontologico per l'avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato”.

 

La pratica collaborativa può essere definita come un metodo di risoluzione alternativo delle controversie che mira al raggiungimento di un accordo tra le parti mediante una negoziazione volta a tutelare gli interessi ed i bisogni delle parti, e non le loro posizioni[14].

Rispetto alla negoziazione assistita, il metodo della pratica collaborativa introduce alcuni ulteriori requisiti, posti a garanzia del buon esito della negoziazione[15]. Si tratta, in particolare: dello specifico obbligo di trasparenza delle parti e dei loro professionisti; dell’obbligo di formazione continua dei professionisti che partecipano al tavolo collaborativo, e del mandato limitato: il mandato affidato ai professionisti che siedono al tavolo collaborativo è, infatti, limitato alla sola fase della negoziazione, sino al raggiungimento dell’accordo, e comporta l’impegno dei professionisti ad astenersi dal tutelare le parti in qualsiasi procedimento che, in caso di insuccesso della negoziazione, le parti dovessero promuovere con riferimento alle stesse questioni oggetto di controversia[16].

Uno dei cardini essenziali della pratica collaborativa è l’obbligo di trasparenza, definito nell’Accordo di Collaborazione come l’obbligo di “condividere tutte le informazioni rilevanti – intese come le informazioni capaci di influenzare le scelte dell’altro – in modo tempestivo, completo e leale”, e di “aggiornarle prontamente in caso di sopravvenuti cambiamenti”.

La finalità dell’obbligo di trasparenza è “essenzialmente quella di consentire a ciascuna delle parti di raggiungere una piena consapevolezza di tutti gli elementi necessari, o anche solo utili, per prendere qualsiasi decisione”: con la precisazione che tale obbligo non riguarda solo “le decisioni finali, ossia il raggiungimento deli accordi, ma anche qualsiasi scelta o valutazione effettuata durante tutto il procedimento collaborativo: dall’emersione degli interessi, al lavoro sulle opzioni, all’accordo finale [17].

Condizione imprescindibile per garantire la trasparenza è l’obbligo di riservatezza, che le parti e i loro professionisti assumono con riferimento alle informazioni ed ai documenti scambiati o comunque resi noti durante la procedura. Le parti, infatti, accetteranno di condividere tutte le informazioni rilevanti solo a fronte della ragionevole certezza che tali informazioni non saranno utilizzate in loro danno nel caso in cui il procedimento di negoziazione non si concluda con un accordo e si debba ricorrere al rimedio giudiziale.

Nell’Accordo di Partecipazione, il principio di riservatezza è declinato con la previsione di obblighi specifici, che vengono assunti dalle parti e dai rispettivi consulenti.

Con la firma dell’Accordo, le parti prendono atto e concordano “che le comunicazioni, le informazioni e i documenti esibiti nel corso della Pratica Collaborativa hanno carattere confidenziale e riservato e possono essere divulgati solo ai componenti della squadra collaborativa. La stessa riservatezza è riservata agli eventuali rapporti, relazioni o annotazioni che i professionisti collaborativi dovessero predisporre nel corso della Pratica Collaborativa”. A questo fine, le parti concordano “che ogni eventuale documento resti custodito dai (…) i professionisti, i quali non potranno consegnarlo a noi nemmeno al termine della pratica collaborativa”.

              Con la sottoscrizione dell’Accordo le parti confermano, inoltre, ed estendono l’obbligo di riservatezza all’ipotesi in cui non si aggiunga l’accordo e si debba instaurare un successivo procedimento giudiziale. Con riferimento a questa ipotesi le parti precisano quanto segue:

a) innanzi all’autorità giurisdizionale potremo allegare solo la circostanza che ci siamo avvalsi della Pratica Collaborativa e che non si è raggiunto un accordo finale;

b) non presenteremo come elemento di prova né esigeremo l’esibizione in giudizio di qualsivoglia documento redatto o predisposto dagli avvocati o dagli altri professionisti nell’ambito della Pratica Collaborativa;

c) non potremo chiamare o indicare come testimone e/o comunque persona informata dei fatti gli avvocati e gli altri professionisti che hanno preso parte alla Pratica Collaborativa stessa”.

Alla luce delle considerazioni svolte, pratica collaborativa e negoziazione assistita appaiono tra loro complementari. Si può anzi affermare che lo strumento della negoziazione assistita si presenta come un efficace “contenitore” che offre alla pratica collaborativa la possibilità di avvalersi di alcune prerogative rilevanti, accordate dal Dl. 132/2014: e precisamente:

-      l’effetto interruttivo della prescrizione e della decadenza che l’art. 8 del D.L 132/2014 attribuisce all'invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita e alla sottoscrizione della relativa convenzione;

-      l’efficacia di titolo esecutivo che l’art. 5 del Dl. citato attribuisce all’accordo concluso all’esito della procedura.

Per contro, la pratica collaborativa costituisce un perfetto “contenuto”, che, se recepito nella convenzione di negoziazione assistita, può utilmente integrare la sintetica disciplina che regola l’istituto, consentendo alle parti ed ai loro legali di meglio esplicitare i rispettivi obblighi ed obiettivi e di regolare le modalità di svolgimento della procedura nel modo più efficace, rapido ed opportuno, applicando tecniche di negoziazione particolarmente sofisticate e collaudate.

Per queste ragioni lo strumento della pratica collaborativa, abbinato alla negoziazione assistita, sta affermandosi oggi come la formula sicuramente più sofisticata ed efficace per la gestione di una negoziazione finalizzata al superamento del conflitto in tutti quei casi in cui è predominate l’interesse comune alla ricostruzione dei rapporti tra le parti ed alla tutela dei valori economici, e non solo, in gioco[18].

 

La procedura di composizione assistita della crisi d’impresa, introdotta dagli artt. 12 e ss. del Dlgs. 14/2019 (CCII), è lo strumento con cui il Legislatore si è proposto di creare “un luogo d’incontro tra le contrapposte, ma non necessariamente divergenti, esigenze, del debitore e dei suoi creditori, secondo una logica di mediazione e composizione, non improvvisata e solitaria, bensì assistita da organismi professionalmente dedicati alla ricerca di una soluzione negoziata; con tutti i riflessi positivi che ne possono indirettamente derivare, anche in termini deflattivi del contenzioso civile e commerciale” (così, testualmente, si legge nella relazione Tecnica al Dlgs. 14/2019)[19].

Nella procedura di composizione assistita della crisi gli obblighi cui le parti devono attenersi nella conduzione della negoziazione sono disciplinati dall’art. 4 del CCII[20].

L’art. 4 CCII, riprendendo e sviluppando in modo più sofisticato gli obblighi di buona fede e lealtà sanciti dal Dl. n. 132/2014 in tema di negoziazione assistita, ha introdotto per la prima volta in modo esplicito l’obbligo della trasparenza, regolandolo in modo articolato.

Si consideri, infatti, che l’emergere di una situazione di crisi comporta un’accentuazione ulteriore dell’obbligo generale di trasparenza sopra richiamato, ed addirittura assoggetta la violazione di tale obbligo a sanzione penale [21].

In considerazione della rilevanza degli interessi in gioco, il Legislatore, con una disposizione che è fortemente innovativa, si è preoccupato di specificare ulteriormente l’obbligo di trasparenza, precisando che l’informativa del debitore ai creditori deve essere, oltreché trasparente, veritiera e completa, in modo da fornire “ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto”.

Gli obblighi di informazione e di trasparenza posti a carico del debitore presuppongono poi, necessariamente, l’obbligo di mantenere il segreto sui fatti di natura riservata conosciuti duranti le trattative da parte di tutti i soggetti che, a vario titolo, partecipano al procedimento di composizione della crisi.

Non è infatti chi non veda come una fuga di notizie sulla situazione del­l’impresa che – su iniziativa propria o di terzi – ha avviato il procedimento di composizione assistita potrebbe avere ritorni negativi devastanti, rischiando di frustrare le finalità stesse cui mira la procedura introdotta dal Legislatore. Si può anzi ragionevolmente affermare che dalla capacità degli OCRI di gestire e tutelare la riservatezza dell’ambiente e il segreto sulle informazioni acquisite dipenderanno in larga misura il successo dell’iniziativa e la possibilità di vincere la naturale (e comprensibile) diffidenza dell’imprenditore a disvelare dati e informazioni estremamente delicati e sensibili quali, appunto, quelli relativi alla sua situazione economico finanziaria, ai piani e alle strategie aziendali.

Per tutelare la confidenzialità delle informazioni l’art. 4, comma 3, del CCII stabilisce che “I creditori hanno il dovere (…) di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite”.

L’art. 5, comma 1, CCII stabilisce inoltre che “I componenti degli organismi e dei collegi preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, ivi compresi i referenti e il personale dei relativi uffici, sono tenuti all’obbligo di riservatezza su tutte le informazioni acquisite nell’esercizio delle loro funzioni”, soggiungendo che essi “devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio [22].

A maggior tutela dell’obbligo di riservatezza il comma 4 dell’art. 5 CCII (con disposizione analoga a quella dettata in tema di mediazione) stabilisce che “I componenti degli organismi e dei collegi preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nell’eser­cizio delle loro funzioni, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Lo stesso articolo estende a tali soggetti le disposizioni dell’ar­t. 200 c.p.p. [23] e le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’art. 103 del medesimo codice di procedura penale, in quanto applicabili [24].

In analogia a quanto disposto in materia di mediazione e negoziazione assistita, l’art. 21, comma 4 del CCII stabilisce che “Gli atti relativi al procedimento e i documenti prodotti o acquisiti nel corso dello stesso possono essere utilizzati unicamente nell'ambito della procedura di liquidazione giudiziale o di un procedimento penale”.

Peraltro, come è stato opportunamente sottolineato, al di là delle misure organizzative e degli strumenti informativi che le Camere di Commercio adotteranno per garantire la secretazione delle informazioni, l’obiettivo di garantire un’effettiva tutela della riservatezza dipenderà in larga misura dalla capacità del sistema camerale di comprendere i “bisogni informativi in materia, in quanto solo l’adeguata preparazione delle risorse umane impegnate può rafforzare il principio di riservatezza [25].

In questo senso, è indiscutibile che la presenza dei professionisti – prima, nella fase delle trattative, e successivamente, durante la procedura di composizione della crisi – sarà destinata ad assumere un ruolo centrale ai fini del rispetto delle esigenze di riservatezza che sono essenziali ai fini dello svolgimento ed il buon esito della procedura. Infatti solo i professionisti – che per preciso obbligo deontologico, sanzionato penalmente oltreché in sede disciplinare, sono tenuti all’osservanza del segreto – potranno costituire il filtro necessario per garantire che la circolazione delle informazioni avvenga con le cautele e nel rispetto degli obblighi di riservatezza imposti dalla legge.

 

Dal quadro normativo richiamato al capitolo precedente emerge come in tutte le procedure ADR non aggiudicative il dovere di riservatezza (tutelato a vari livelli e accompagnato da precise responsabilità anche penali, per il caso di sua violazione) sia condizione necessaria per garantire che la negoziazione possa avvenire secondo trasparenza.

La trasparenza costituisce infatti un corollario degli obblighi della buona fede, della lealtà e correttezza, che il Legislatore ha imposto in via generale, in attuazione del dovere fondamentale della solidarietà (politica, economica e sociale) rispondente ad una fondamentale esigenza di tutela di valori costituzionalmente garantiti il cui rispetto è necessario per garantire la civile convivenza[26]. Questi obblighi assurgono a canoni generali di comportamento, sia nella fase di esecuzione dei contratti, e più in generale nella fase di adempimento di qualunque obbligazione (sia essa contrattuale o extracontrattuale); sia nella fase precontrattuale, e cioè nelle trattative volte alla stipulazione di un contratto[27].

La giurisprudenza ha affermato il principio (ribadito dalla Cassazione a Sezioni Unite) che “il principio di correttezza e buona fede (…) enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, anche a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge” (Così: Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28056; nello stesso senso: Cass. civ., sez. I, 06 agosto 2008, n. 21250; Cass. civ., sez. I, 27 ottobre 2006, n. 23273.). E si deve subito osservare che gli interessi della controparte non possono essere ragionevolmente salvaguardati in assenza di un comportamento trasparente, volto a rendere note le circostanze che possono influire sulle valutazioni della controparte. In questo senso si è chiaramente espressa la Cassazione, che ha ribadito il concetto che la regola posta dall'art. 1337 c.c. (che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede “nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto”) ha valore di clausola generale “ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto[28].

L’obbligo di trasparenza, che rappresenta la conseguenza più ovvia dell’obbligo di buona fede, costituisce tuttavia lo scoglio più difficile da superare per chi sia ancora ancorato ad una visione tendenzialmente “processualistica” dei rapporti contenziosi[29] e ad un approccio avversariale alla negoziazione, e veda quindi nelle procedure ADR un mero strumento di deflazione del contenzioso, e non anche un’opportunità per addivenire ad una soluzione costruttiva delle controversie (nella prospettiva di una miglior tutela degli interessi delle parti, e non solo di una riduzione del numero e della durata dei processi).

Alcuni commentatori si sono infatti chiesti se il dovere di riservatezza, oltreché condizione necessaria, sia anche condizione sufficiente per garantire la trasparenza, o se invece la trasparenza non debba incontrare un limite nel diritto - insopprimibile (costituzionalmente garantito) - della parte alla difesa in giudizio: diritto che a sua volta presuppone quello di non rivelare circostanze contrarie ai propri interessi e che potrebbero costituire  confessione, con conseguente soccombenza nella causa che fosse intentata in caso di esito negativo della procedura ADR.

È stato infatti sostenuto, in tema di negoziazione assistita, che l’obbligo di disclosure troverebbe una sfera di applicazione più limitata rispetto a quella delineato dalla giurisprudenza sopra richiamata in tema di buona fede e trasparenza[30]; e ciò sulla base della considerazione che mentre alcuni doveri sono “del tutto compatibili con il negoziato su una possibile transazione”, altri doveri “sono, invece, difficilmente compatibili con un situazione che vede, comunque, la contrapposizione di parti che non possono essere private del diritto alla difesa e non possono quindi essere obbligate a cooperare sino al punto di abdicare tale diritto[31].

Il problema è in realtà mal posto e si fonda su un fraintendimento.

Occorre infatti subito precisare che l’avvio di una procedura ADR, anche nei casi in cui è stata prevista dal Legislatore  come una condizione di procedibilità dell’azione giudiziale, non limita in alcun modo il diritto di difesa delle parti che hanno formulato o ricevuto l’invito a negoziare: perché le parti sono sempre libere di non dar seguito alla negoziazione  e di ricorrere al rimedio giurisdizionale (salvo subirne le modeste conseguenze che ne derivano sul piano processuale, nel senso che il rifiuto di negoziare/mediare può influire sulla quantificazione e ripartizione delle spese del giudizio ed incidere sulla valutazione del comportamento complessivo della parti da parte del giudice).

Ma a prescindere da questo rilievo, la tesi che vorrebbe restringere i confini dell’obbligo di trasparenza nella negoziazione assistita (e nelle altre procedure ADR) applicando i principi che il legislatore ha fissato nel disciplinare la difesa delle parti nel giudizio civile, si fonda su un fraintendimento: e cioè sulla pretesa di poter applicare all’esecuzione di un contratto (la clausola o convenzione che regola la procedura ADR) ed alla negoziazione di un accordo (che le parti si sono impegnate a raggiungere avviando la procedura ADR) i principi che regolano il processo, assimilando il processo a strumenti di risoluzione delle controversie che hanno invece natura, finalità e presupposti profondamente  diversi.

Orbene, è vero che, a differenza di altri Paesi, che prevedono a carico delle parti un obbligo di verità e di disclosure[32], nel nostro sistema giuridico la difesa nel processo, pur dovendo essere ispirata a principi di lealtà e probità, non comporta l’obbligo di enunciare tutti i fatti rilevanti, ove essi siano sfavorevoli alla parte che agisce o si difende in giudizio[33]. Questa differenza ben si spiega con il fatto che il sistema processuale civile, incentrato sul principio dispositivo della prova: i)  attribuisce a ciascuna parte l’onere di dedurre le prove sui fatti ritenuti rilevanti ai fini della dimostrazione del fondamento delle proprie domande od eccezioni[34]; ii) non prevede a carico delle parti l’obbligo di dire il vero (salvo  nel caso di deferimento del giuramento, decisorio o suppletorio,  ai sensi dell’art. 2376 c.c.[35]); iii) attribuisce l’efficacia probatoria della confessione al riconoscimento che la parte faccia in giudizio di fatti a sé sfavorevoli; iv) e ricollega conseguenze limitate ai comportamenti scorretti delle parti (comportamenti che, sul piano processuale, possono essere assunti dal  giudice come elementi di valutazione ai fini della decisione, e sul piano civilistico possono comportare una responsabilità per danni a carico della parte che li ha posti in essere, quando si traducano in iniziative  dilatorie, strumentali o palesemente infondate o temerarie[36]).

Tuttavia questa visione del processo, inteso come lo strumento con cui le parti richiedono l’accertamento dei rispettivi e contrapposti diritti ed obblighi  e demandano ad un terzo la decisione su chi ha torto e chi ha ragione, non può essere traslata nel contesto di strumenti (contrattuali, non aggiudicativi, di risoluzione delle controversie) che operano al di fuori della logica avversariale (di costante contrapposizione tra vero/falso, giusto/ingiusto, adempimento/inadempimento, diritto/obbligo, torto/ragione) e che mirano al raggiungimento di un accordo attraverso l’individuazione e la preservazione di interessi comuni.

Orbene, se si considera che nella negoziazione assistita, così come nella pratica collaborativa e nella procedura di composizione assistita della crisi, la lealtà e la buona fede non solo devono ispirare il comportamento delle parti nella fase precontrattuale (prodromica al raggiungimento dell’accordo), ma diventano la connotazione di uno specifico obbligo di cooperazione delle parti ai fini del raggiungimento di tale accordo, è difficile comprendere come possa esistere tale cooperazione in assenza di una totale condivisione di tutte le informazioni necessarie o anche solo utili per raggiungere consapevolmente un accordo equo ed equilibrato.

Il fatto che le procedure ADR scaturiscano da un contratto ed abbiano oggetto la negoziazione di un contratto, comporta dunque che  il problema della trasparenza debba essere affrontato in termini opposti rispetto a quelli nei quali è generalmente affrontato dai commentatori: il punto, cioè, non è quello di verificare se e quali deroghe al principio della trasparenza siano ammissibili in sede di negoziazione, ma è quello di disciplinare tali eventuali deroghe nella convenzione di negoziazione, affinché sia chiaro e condiviso l’ambito in cui opera il dovere di informativa.

E nel caso in cui, in una determinata controversia, l’esigenza di tutelare la riservatezza di talune informazioni o di non rivelare alcune circostanze sia (per le più svariate ragioni) prevalente, occorrerà prendere atto che la procedura ADR imperniata sulla trasparenza non potrà essere utilizzata per la composizione di quella controversia[37].

 

Una lettura attenta, consapevole e coerente del complesso delle norme (civili, penali, deontologiche) che disciplinano la materia, induce inoltre a riconsiderare il rapporto tra la procedura ADR ed il giudizio che, in caso di fallimento della negoziazione, le parti intenteranno per veder riconosciute le rispettive pretese.

Più precisamente occorre chiedersi se gli obblighi di riservatezza cui sono tenuti i professionisti che assistono le parti (obblighi penalmente sanzionati e posti a tutela delle informazioni sensibili acquisite durante la procedura ADR) non costituiscano una limitazione implicita al successivo mandato professionale di assistenza nel successivo giudizio.

Invero, vi saranno casi in cui la procedura ADR fallisca sul nascere o si chiuda dopo poche riunioni senza che siano emersi fatti significativi o siano state scambiate informazioni sensibili, a causa della distanza delle rispettive posizioni o per la resistenza delle parti ad aprirsi e trovare un accordo. In questi casi i professionisti non incontreranno ostacoli (normativi e deontologici) ad assistere le parti nel successivo processo che le vedrà contrapposte.

Ben più complesso è, invece, il caso in cui la procedura di negoziazione fallisca dopo che le parti – negoziando in trasparenza - abbiano avuto modo di mettere sul tavolo informazioni sensibili o addirittura rilasciare dichiarazioni potenzialmente confessorie, sulle quali i professionisti che hanno assistito le parti sono tenuti ad osservare il segreto.

In questo caso è lecito chiedersi se quegli stessi professionisti che, avendo assistito la parte nella procedura, sono tenuti al rispetto del segreto e sono vincolati dal divieto di utilizzare in giudizio le informazioni acquisite durante la procedura ADR, possano assistere la stessa parte nel processo avente ad oggetto la stessa controversia.

Il problema è ancora più delicato nelle procedure di negoziazione assistita e di composizione della crisi d’impresa, che prevedono espressamente in capo alle parti ed ai loro professionisti l’obbligo di trasparenza e l’obbligo di cooperazione al fine del raggiungimento di un accordo.

Un'analisi attenta delle disposizioni dettate dal Dl. 132/2014 che ha introdotto lo strumento della negoziazione assistita induce infatti a ritenere che il divieto dei legali delle parti di rappresentare e difendere le stesse in qualunque giudizio che in futuro le veda contrapposte (divieto che costituisce uno dei presupposti centrali della pratica collaborativa), costituisca una conseguenza logica (anche se non espressa), per non dire necessaria, della sottoscrizione dell'accordo di negoziazione assistita.

Ed infatti, se si considera  che i legali che assistono le parti nella negoziazione assistita hanno accesso ad informazioni riservate relative non solo alla singola controversia oggetto di trattativa, ma alla situazione e condizione complessiva delle parti ed ai loro rapporti,  e sono per ciò tenuti ad un rigoroso e stringente obbligo di riservatezza, sembra corretto concludere che ai legali delle parti competa anche l'obbligo di astenersi dal tutelare le stesse nel giudizio che, in caso di fallimento della negoziazione, verta sulle stesse questioni controverse che ne hanno formato oggetto.

È, questo, un tema spinoso (ed invero non ancora adeguatamente esplorato dai commentatori),  la cui diffusione incontrerà sicuramente l'opposizione   di ampie fasce di una categoria professionale che, purtroppo, è ancora schierata sulla difesa ad oltranza di tesi e prerogative che non sono oggi più compatibili con il nuovo ruolo sociale che l'avvocato è chiamato a svolgere, e che trova oggi invece riconoscimento nelle varie  disposizioni che valorizzano il contributo professionale che l'avvocato può dare all'amministrazione della giustizia prima e fuori del processo, cooperando in modo costruttivo alla composizione dei conflitti[38].

Eppure, il divieto dei legali coinvolti nella negoziazione di assistere le stesse parti in un giudizio che le veda contrapposte appare ancor più evidente se si pone attenzione ad uno dei passi centrali (anche se non adeguatamente messo in luce dai commentatori) delle scarne diposizioni che disciplinano  la negoziazione assistita: e cioè il passo dell’art. 2 del Dl. 132/2014, in cui la convenzione di negoziazione assistita viene espressamente qualificata come un accordo di cooperazione, ovvero “un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia”.

Orbene, è pur vero che gli avvocati che assistono le parti nella negoziazione ricevono in genere mandati distinti, conferiti separatamente dai rispettivi clienti; ma è altrettanto vero che i mandati hanno per oggetto proprio la cooperazione per il raggiungimento di un fine comune ad entrambe le parti: tant’è che, a norma dell’art. 2, comma 5, del DL 132/2014, la convenzione può essere conclusa “con l'assistenza di uno o più avvocati”[39].

Ne consegue che il divieto di assistere una delle parti contro l’altra sicuramente grava sull’avvocato che abbia ricevuto dalle parti un incarico di assistenza congiunta ai fini della procedura di negoziazione[40]. Ma pare corretto ritenere che un analogo dovere di astensione si ponga, se non strettamente in termini di obbligo giuridico, quanto meno in termini di opportunità e correttezza, per gli avvocati che hanno ricevuto incarichi separati (anche alla luce dei doveri deontologici di fedeltà e di non agire in conflitto di interessi previsti dal CDF[41]).

Queste conclusioni sono declinate nel metodo della pratica collaborativa con l’espressa previsione dell’obbligo di mandato limitato ai professionisti che assistono le parti nella procedura di composizione della controversia.

La previsione del mandato limitato (e cioè del divieto di assistere le parti nel successivo giudizio in caso di mancato raggiungimento dell’accordo) altro non fa che rafforzare l’obbligo di lealtà e cooperazione che compete ai legali della parti (oltre che ai loro assistiti), con la finalità di meglio salvaguardare gli interessi dei clienti, focalizzando l’attenzione e concentrando gli sforzi sull’obiettivo comune ed evitando che il raggiungimento di questo obiettivo possa essere frustrato dalla minaccia di adire le vie giudiziali (spesso agitata come strumento di pressione nella negoziazione avversariale)[42].

 

Le disposizioni richiamate nei paragrafi introduttivi (l’art. 9 del D. Lgs. 28/2010, in tema di mediazione, e l’art. 5, comma 1, CCII, in tema di composizione assistita della crisi) impongono il dovere di riservatezza a tutti coloro che prestano la propria opera o il proprio servizio negli organismi preposti alla procedura ADR.

Al segreto sono inoltre tenuti tutti i professionisti che partecipano alla procedura, nella veste di consulenti delle parti, ovvero in virtù di un incarico di consulenza specifico (consulenti tecnici o esperti).

Rientrano quindi tra i soggetti tenuti al segreto sia gli avvocati, sia i dottori commercialisti e gli esperti contabili, in virtù della disposizione generale contenuta nell’art. 622 c.p., che, sotto la rubrica “Rivelazione di segreto professionale”, stabilisce che “Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516”.

Le disposizioni che disciplinano le procedure ADR non aggiudicative stabiliscono inoltre che i difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite, richiamando espressamente le disposizioni dell’art. 200 c.p.p., a norma del quale “1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria: b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai; (…) d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale[43].

Occorre a questo proposito fugare possibili dubbi sulla lettura delle disposizioni  che stabiliscono che i difensori delle parti e coloro che partecipano alla procedura “non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite” e che estendono a tali soggetti le garanzie di cui all’art. 200 c.p.p..

Ed infatti, la formulazione letterale delle predette disposizioni potrebbe indurre (erroneamente) a ritenere che   i difensori delle parti e coloro che partecipano alla procedura non possano essere obbligati a rendere la propria disposizione su quanto emerso nel corso della proceduta, ma possano comunque scegliere di farlo.

Tuttavia questa lettura si scontrerebbe in modo evidente sia con le finalità delle disposizioni in commento (che è proprio quella di garantire l’esigenza di riservatezza - perseguita anche sancendo l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento ed escludendo l’esperibilità delle prove sul punto); sia con i precisi obblighi in tema di rispetto del segreto professionale imposti dalla legge e dai codici deontologici dei rispettivi ordini di appartenenza.

La formulazione “non possono essere tenuti a deporre” deve quindi essere letta nel senso nel senso di “sono obbligati a non deporre”.

Il diritto/dovere di astensione dal deporre si applica tanto agli avvocati quanto ai dottori commercialisti e agli esperti contabili coinvolti nella procedura ADR e la sua violazione costituisce illecito disciplinare.

Merita in proposito segnalare la recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez. 1 n. 27703/2020 del 3/12/2020) che – con riferimento alla specifica posizione dell’avvocato - ha ribadito il principio che “la facoltà di astensione riconosciuta all'avvocato si inscrive nella tutela del diritto di difesa inteso in senso ampio proprio perché è destinata a garantire la piena esplicazione del diritto di difesa, consentendo che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, essere resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria o utile per l'esercizio di un efficace ministero difensivo; e, quindi, l'avvocato può avvalersene riguardo alle conoscenze acquisite in ogni fase dell'attività professionale, sia contenziosa che non, come nel caso in esame, in cui l'attività professionale prestata era di tipo stragiudiziale, di guisa che il presupposto oggettivo connesso allo svolgimento dell'attività professionale non può ritenersi circoscritto alla sola ipotesi in cui egli abbia assunto la veste di difensore nel processo, nel qual caso - peraltro - ricorrerebbe una incompatibilità a testimoniare”.

 

La violazione del segreto da parte dei professionisti coinvolti nella procedura ADR (avvocati, dottori commercialisti o esperti contabili ed altri professionisti eventualmente incaricati nella veste di consulenti tecnici delle parti o esperti) comporta l’insorgere della responsabilità penale prevista dall’art. 622 c.p., richiamato al paragrafo che precede.

Sotto il profilo della responsabilità civile, le disposizioni specifiche di legge dettate con riferimento alle singole procedure ADR sono integrate dalla normativa secondaria, emanata dagli Ordini Professionali, e che detta i canoni di comportamento cui devono attenersi i professionisti iscritti agli ordini. In questo senso, le norme deontologiche, da un lato, vanno a specificare ulteriormente il contenuto dell’obbligazione di diligenza cui sono tenuti i professionisti nello svolgimento del loro incarico (art, 2236 c.c.); e d’altro lato integrano quelle regole e precetti la cui violazione comporta l’insorgere della responsabilità per colpa.

La violazione del divieto di riservatezza potrà pertanto comportare l’insorgere di una responsabilità contrattuale del professionista nei confronti del cliente, con conseguente diritto di quest’ultimo al risarcimento dei danni derivati dalla violazione del divieto.

Nei confronti delle altre parti del procedimento, la violazione del divieto comporterà l’insorgere in capo al professionista di una responsabilità extracontrattuale per danni.

La responsabilità sarà inoltre contrattuale nei confronti di tutte le parti nel caso della negoziazione assistita e della pratica collaborativa, poiché in questi casi il professionista assume anche contrattualmente l’obbligo di riservatezza, sottoscrivendo la convenzione di negoziazione assistita o l’accordo di partecipazione.

La violazione del segreto in ordine a circostanze apprese nel corso della procedura ADR costituisce inoltre illecito disciplinare[44], e comporta l’applicazione delle sanzioni previste dai codici deontologici emanati dagli ordini professionali di appartenenza.

 

Le disposizioni volte a tutelare la riservatezza nelle procedure ADR non aggiudicative stabiliscono che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto (art. 10, Dlgs. 28/2010, in tema di mediazione; art. 9, comma 4bis, del Dl. 132/2014 in tema di negoziazione assistita)[45].

Ciò significa che non è consentito riferire in giudizio informazioni e dati, così come pure non è consentito produrre documenti, di cui si abbia avuto conoscenza nell’ambito della procedura, se non previo consenso della parte che ha reso le dichiarazioni o fornito le informazioni[46].

Il principio è apparentemente ovvio, e trova il suo fondamento nell’esigenza di garantire che la negoziazione possa svolgersi secondo buona fede e trasparenza: nel senso che le parti accetteranno di condividere tutte le informazioni rilevanti solo a fronte della ragionevole certezza che tali informazioni non saranno utilizzate in loro danno nel caso in cui il procedimento di negoziazione non si concluda con un accordo e si debba ricorrere al rimedio giudiziale.

Occorre tuttavia chiarire bene la portata di tale principio, per evitare che la disposizione si presti ad interpretazioni fuorvianti o addirittura contrastanti con le finalità su cui poggia l’intero impianto normativo che disciplina le procedure ADR, frustrandone gli obiettivi e pregiudicandone il successo.

Occorre cioè subito precisare che il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso della procedura ADR nel successivo giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto, non deve essere inteso in modo indiscriminato, e cioè nel senso che esso colpisca qualunque dato o elemento emerso nel corso della procedura ADR,  ivi inclusi i fatti accaduti prima del procedimento stesso (costitutivi, impeditivi, modificativi estintivi) e che, necessariamente, devono poter essere posti rispettivamente a fondamento della domanda giudiziale e delle difese del convenuto.

Ed invero, come è stato saggiamente affermato, se si accedesse a questa interpretazione, si giungerebbe ad un inammissibile paradosso: e cioè “si consentirebbe al litigante malizioso di narrare [.. in sede di procedura ADR ..] tutti i possibili fatti attinenti alla lite (e a sé sfavorevoli) al fine di precludere all’altro litigante di farne uso in giudizio[47]

Questa interpretazione si scontrerebbe inoltre con le disposizioni di rango costituzionale che riconoscono a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e individuano nella facoltà di difesa un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.).

Le disposizioni sopra richiamate vanno interpretate alla luce della loro finalità, che, come più volte detto, è quella di garantire la fruttuosità della procedura consentendo alle parti di “aprirsi”, effettuando in trasparenza dichiarazioni e/o fornendo informazioni che giammai rivelerebbero in sede giudiziale, con la sicurezza che tali dichiarazioni e informazioni saranno coperte dal segreto e non potranno essere utilizzate in loro danno.

Se questa è la finalità delle disposizioni in questione, occorre allora ritenere che l’inutilizzabilità non riguarda i fatti rilevanti di causa, bensì “riguarda il fatto in sé che siano state rese delle dichiarazioni o siano state prodotte informazioni aventi un certo contenuto; in altri termini, non è possibile allegare e utilizzare, a fini probatori, la circostanza che determinati dati siano stati riportati da una parte o dall’altra nel corso del procedimento”.  Resta invece fermo che “all’attore non è certamente impedito allegare e provare i fatti costitutivi, né al convenuto i fatti modificativi, impeditivi, estintivi del diritto fatto valere dall’attore; ciò che conta è che si tratti di fatti verificatisi prima e indipendentemente dal procedimento[48].

 

Un ulteriore dubbio potrebbe porsi in relazione all’utilizzabilità in giudizio dei fatti conosciuti nel corso della procedura ADR, attraverso la dichiarazione di una parte o le informazioni da questa messe a disposizione, e che l’altra parte non avrebbe potuto conoscere diversamente, se non, appunto, attraverso quella dichiarazione o messa a disposizione.

Si tratta, anche in questo caso, di scegliere tra una interpretazione ampia del divieto – che impedirebbe sempre alla parte di allegare e provare il fatto nel successivo giudizio – e una interpretazione più restrittiva – che consentirebbe invece di dedurre a prova e provare il fatto, ma senza far cenno alcuno alla circostanza che esso sia stato riferito dall’altra parte nel corso della procedura di composizione della controversia.

 Se si pone mente alle finalità che ispirano le norme in discussione, sembra corretto ritenere che l’interpretazione più restrittiva sia l’unica che consente di conciliare l’esigenza di tutela della riservatezza con la contrapposta esigenza di non comprimere il diritto (costituzionalmente garantito) di azione e di difesa in giudizio che spetta alle parti[49].

Il divieto di utilizzare in giudizio le informazioni acquisite e le dichiarazioni rese mira infatti ad evitare che l’affermazione di una parte contrastante con il proprio interesse, ma fatta in buona fede e per trasparenza al fine favorire il raggiungimento di un accordo, possa essere invocata dall’altra parte per dedurre a prova una confessione stragiudiziale sul fatto controverso (sfruttando in modo capzioso la buona fede dell’altra parte). Ma il divieto non mira certo ad impedire alla parte, che nella procedura di mediazione è venuta a conoscenza di fatti a sé favorevoli, di invocarli a tutela dei propri diritti.

Quindi, per fare un esempio, in una controversia in materia di responsabilità prodotto, la parte danneggiata non potrà certo invocare a proprio favore e dedurre a prova il fatto che il produttore abbia ammesso nel corso della procedura ADR l’esistenza di un vizio di fabbricazione; ma potrà sempre dimostrare (con tutti i mezzi consentiti) l’esistenza del vizio ed il fatto che dal vizio le sia derivato un danno.

Analogamente, il coniuge che richieda un contributo per il mantenimento del figlio minore, non potrà dedurre a prova il fatto che l’altro coniuge abbia ammesso nel corso della procedura ADR di disporre di rilevanti liquidità su un conto estero; ma, in caso di fallimento della negoziazione, potrà sempre invocare nel successivo giudizio e dedurre a prova l’esistenza in capo al coniuge di diponibilità che giustificano il versamento dell’assegno.

Per quanto attiene alle conseguenze, sul piano processuale, della violazione del divieto, sembra corretto ritenere che la rivelazione in giudizio dell’informazione rilasciata dalla controparte nel corso della procedura ADR comporti la nullità della prova acquisita.  La parte autrice della dichiarazione rivelata illegittimamente ha cioè diritto di sollevare la relativa eccezione di inutilizzabilità (eccezione che dovrebbe, peraltro, essere rilevabile d’ufficio). La regola della “inutilizzabilità” “consentirebbe infatti di qualificare come “illecita” – vale a dire, illegittimamente acquisita o esperita – la prova che fosse assunta in virtù delle informazioni rinvenienti dal procedimento di mediazione, ciò che contribuisce ad attribuire una significativa venatura pubblicistica alla suddetta esigenza[50].

 

Il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nell’ambito della procedura ADR nel successivo giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto comporta altresì il divieto di dedurre a prova il contenuto di tali dichiarazioni[51].

Le finalità delle disposizioni in esame inducono inoltre a ritenere che il divieto sia rivolto non solo ai professionisti delle parti ed ai componenti degli organi che presiedono alla procedura ADR, ma  a tutti coloro che in qualsiasi modo (quindi, anche senza essere coinvolti direttamente o indirettamente nel procedimento) siano venuti a conoscenza di quanto detto e/o accaduto nel corso della procedura ADR[52].

Per quanto riguarda l’ambio oggettivo di tale divieto occorre ribadire quanto osservato ai paragrafi che precedono: e cioè che il divieto non riguarda i fatti rilevanti di causa, “bensì la circostanza in sé che nel corso del procedimento di mediazione siano state rese dichiarazioni e acquisite informazioni aventi un certo contenuto e provenienti da certi soggetti”.

Il divieto di dedurre prove sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso della procedura ADR colpisce sia la prova testimoniale, sia l’interrogatorio formale. Peraltro anche in questo caso il divieto vale in quanto il mezzo istruttorio sia diretto a provare (attraverso la confessione) che la parte interrogata abbia reso determinate dichiarazioni o che determinate informazioni siano emerse nel corso della procedura ADR. Mentre nessuna preclusione, invece, si pone in relazione ai fatti di causa rilevanti.            

Per le medesime ragioni di tutela della riservatezza, infine, dovrebbero escludersi l’utilizzabilità dell’accertamento tecnico compiuto dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento stragiudiziale, nonché l’esperibilità dell’ordine di esibizione di qualsivoglia documento ivi prodotto[53].

           

Il principio di riservatezza trova, infine, alcune limitazioni di carattere soggettivo e oggettivo.

Dal punto di vista soggettivo, una deroga all’obbligo di riservatezza si rinviene nella volontà delle parti. Il vincolo di “inutilizzabilità” viene meno e il contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni può essere divulgato o comunque prodotto in un successivo giudizio quando la parte che ha reso le dichiarazioni o fornito le informazioni abbia prestato, nell’ambito della procedura ADR, il consenso alla loro divulgazione.

Sul piano oggettivo il vincolo di riservatezza cede in presenza di interessi superiori (di ordine pubblico) che impongano o consentano la divulgazione di quanto accaduto o dichiarato o appreso nel procedimento. È questo il caso in cui i fatti dichiarati consistano in violazioni di norme di ordine pubblico o integrino una fattispecie di reato (ad esempio, un atto di violenza perpetrato da un contendente a danni dell’altro[54]).

In tali casi infatti, la riservatezza, “già di per sé, come visto dal principio derogabile e diritto rinunciabile su consenso della parte interessata, dovrebbe retrocedere, (…) perché nel bilanciamento degli opposti valori non sembra meritare prevalenza[55].

           

 

 

Alessandro Baudino

 

[1] Nella classifica internazionale sui tempi processuali contenuta nel rapporto Doing Business che la Banca Mondiale redige per fornire indicazioni alle imprese sui Paesi in cui è più vantaggioso investire, l’Italia si trova purtroppo oltre il centesimo posto quanto ad a efficienza della giustizia, allineata con molte nazioni sottosviluppati e in via di sviluppo (cfr: www.dingbusiness.org) . Ed anche il  rapporto European judicial systems, realizzato dalla commissione del Consiglio d’Europa specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari (Cepej) utilizzando parametri più articolati e sofisticati (che tengono conto della spesa pubblica in materia di giustizia, del fondo per la difesa d’ufficio e per il patrocinio gratuito, del numero di magistrati e avvocati, del flusso dei procedimenti trattati, del tasso di litigiosità e di quello di criminalità, dei sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, etc.) posiziona l’Italia tra gli ultimi dei Paesi membri.

[2] Questo effetto è talora necessario, come nel caso in cui le parti abbiano già ritenuto che non sussistano più i presupposti per una prosecuzione del rapporto, e si tratti quindi di farne constare   formalmente l’intervenuta cessazione, accertare gli inadempimenti e le correlate responsabilità delle parti. In altri casi, ed in particolare nei rapporti di durata in cui le parti si sono prefissate l’obiettivo di sviluppare un progetto economico complesso e di ampio respiro, l’interesse prevalente delle parti è quello di salvaguardare il progetto comune, preservare il valore dell’investimento e conservare il rapporto. In questi casi l’effetto “demolitorio” della decisione giudiziaria od arbitrale è palesemente contrastante con l’interesse delle parti alla conservazione del rapporto, e la decisione del Giudice o dell’Arbitro può addirittura rivelarsi inutile (come spesso avviene quando il conflitto tra le parti abbia determinato l’impossibilità di proseguire l’impresa comune, conducendola allo scioglimento). Ed infatti, anche in considerazione delle tempistiche dei giudizi e delle stesse procedure arbitrali (spesso dilatate dalla necessità di assumere prove o esperire consulenze), i rimedi giudiziari ed arbitrali intervengono ad uno stadio in cui il conflitto, con il protrarsi del tempo, è diventato un dissidio ormai insanabile e la risoluzione della singola controversia finisce con il rimuovere la sola punta di un iceberg, la cui parte sommersa continua a contrapporre le parti in conflitto.

[4] Per un approfondimento dell’origine e dello sviluppo della pratica collaborativa si vedano: M. SALA e C. MENICHINO in: AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA E C. MENICHINO, UTET, Torino, 2017, pag. 11 e ss., con estese e ricche note bibliografiche sul tema. Sul tema dell’applicazione della pratica collaborativa alle controversie civili e commerciali si veda:  A. BAUDINO, La pratica collaborativa: procedure ADR a confronto e nuove prospettive per la risoluzione delle controversie in materia societaria, Seconda parte, in: Il Nuovo Diritto delle Società, G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, n. 2/2019, pag. 199 e ss..

[5] In questo senso: D. Stalla-R. Frascinelli, Col Codice della crisi si passa a una logica di negoziazione non conflittuale, in www.Eutekne.info, lunedì 25 marzo 2019.

[6] Il D. Lgs. 28/2010 definisce la mediazione e la figura del mediatore, lasciando tuttavia alle parti e al mediatore ampia liberà nel definire il “modello” della procedura e le tecniche di mediazione da impiegare in relazione alla singola controversia. Per una sintesi dei modelli di mediazione più ricorrenti, classificati in base al ruolo (più o meno attivo e propositivo) svolto dal mediatore ed alla rilevanza (più o meno accentuata) attribuita al quadro normativo che regolamenta il rapporto controverso, si veda: D. DALFINO, Mediazione civile e commerciale, in Commentario del codice di procedura civile a cura di S. CHIARLONI, Torino, 2016, pagg. 14 e ss.. Sul metodo (oggi largamente applicato) della cosiddetta “mediazione trasformativa”, in cui il mediatore si limita ad aiutare le parti a comprendere le ragioni vere del conflitto, di modo che l’accordo divenga il frutto di una libera scelta delle parti, maturata alla luce della ‘trasformazione’ della situazione originaria, cfr.: R. A. B. BUSH, J. P. FOLGER, The Promise of Mediation. The Transformative Approach to Conflict, II ed., Jossey Bass, 2005. Tra i metodi di più recente applicazione merita un cenno quello, più innovativo e per certi aspetti rivoluzionario, noto come “Mediation through understanding”, fondato sulla reciproca comprensione e sulla totale trasparenza e condivisone delle informazioni rilevanti (per un approfondimento si veda: G. FRIEDMAN, J. HIMMELSTEIN, Challenging Conflict, Mediation Through Understanding, American Bar Association, 2008).

[7] Per un’analisi approfondita dell’ambito di estensione del dovere di riservatezza e delle conseguenza della sua eventuale violazione da parte del mediatore, dei legali e delle parti, si veda: D. DALFINO, Mediazione civile e commerciale, in Commentario del codice di procedura civile a cura di S. CHIARLONI, Torino, 2016, pagg. 401 e ss..

[8] La violazione dell’obbligo di riservatezza configura quindi l’ipotesi di reato previsa dall’art 622 c.p.  (“Rivelazione di segreto professionale”), che sanzionaChiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto”.

[9] L’ Art. 200 del c.p.p. stabilisce che “(…) gli avvocati (…) i consulenti tecnici e i notai; (…) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale” (…)  “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria”. La disposizione vieta inoltre “il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”.

[10] A norma dell’art. 103 c.p.p. “Le ispezioni e le perquisizioni negli uffici dei difensori sono consentite solo: a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate. Inoltre, “Presso i difensori e gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché presso i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato”. E ancora “Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori (…) né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite.

[11] Trattasi della Convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati”, così definita dalla rubrica dall’art. 2 del D.L. 132/2014. La negoziazione assistita ha i suoi “ascendenti culturali” nella cosiddetta “pratica collaborativa” (sviluppatasi negli stati Uniti), su cui ci soffermerà nel capitolo che segue, e si ispira infatti alla normativa francese sulla “procédure partecipative”, introdotta in Francia tra il 2010 ed il 2012, che a sua volta si è ispirata alla pratica collaborativa (il riferimento è alla L. 22 dicembre 2010, n. 1609, che ha modificato il codice civile francese, ed alla L. 20  gennaio 2012,  n. 66,  che ha introdotto nel codice di procedura civile francese un nuovo titolo dedicato al processo partecipativo).

[12] A norma dell’art. 200  del c.p.p., gli avvocati “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria”, e “Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”.

[13] A norma dell’Art. 103 c.p.p., “Le ispezioni e le perquisizioni negli uffici dei difensori sono consentite solo: a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell'accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate”. Inoltre, “Presso i difensori e gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché presso i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato”. E ancora “Non è consentita l'intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori (…) né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”.

[14] In questo senso, il metodo si ispira alla “interest based negotiation” teorizzata dalla scuola di Harvard (il cosiddetto Harvard Method) e sviluppata, sin dagli anni 80, dai docenti di quell’Università Roger Fisher and William Ury (R. Fischer, W. Ury, Getting To Yes, 2d Penguin Books, 1991). Il metodo collaborativo venne ideato dall’avvocato Stuart Webb, con specifico riferimento alle controversie in materia famigliare e fu adottato e sviluppato dapprima da molti professionisti statunitensi e canadesi, per diffondersi poi in tutto il mondo. Per un approfondimento dell’origine e dello sviluppo della pratica collaborativa si veda: M. SALA in: AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA e C. MENICHINO, UTET, Torino, 2017, pag. 11 e ss., con estese e ricche note bibliografiche sul tema.

[16] Gli obblighi sopra elencati, cui sono tenuti i professionisti collaborativi coinvolti nella negoziazione, sono disciplinati e meglio specificati nell’“accordo di partecipazione alla pratica collaborativa” che le parti ed i professionisti che le assistono sottoscrivono prima di dar corso alla negoziazione. Nella parte introduttiva dell’Accordo di Partecipazione le parti infatti prendono atto che “la Pratica Collaborativa è un metodo non contenzioso per la soluzione dei conflitti, improntato ai principi della buona fede, della correttezza, della trasparenza e della riservatezza”, in cui le parti “sono le protagoniste del procedimento e sono responsabili delle decisioni che verranno prese”. A questo fine le parti si obbligano “a giungere a una soluzione concordata” che soddisfi gli interessi di entrambe. Il modello di accordo cui si fa riferimento è stato elaborato dall’Associazione Italiana Professionisti Collaborativi, calando nel contesto giuridico italiano i modelli sviluppati negli Stati Uniti, ed è pubblicato tra le appendici in: AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA e C. MENICHINO, Torino, 2017.

[17] Così: M. SALA in: AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA E C. MENICHINO, Torino, 2017, pag. 58. Nella pratica collaborativa l’obbligo di trasparenza è assunto non solo dalle parti nei rispettivi confronti, ma anche dai legali nei loro reciproci confronti e nei confronti delle controparti. Questo obbligo è chiaramente esplicitato nella dichiarazione che i legali sottoscrivono in sede di stipulazione dell’Accordo di Partecipazione, ove le parti prendono atto e concordano che “i rispettivi avvocati collaborativi dovranno rinunciare al mandato qualora esse rifiutassero di condividere un’informazione rilevante” o la presentassero “in modo non veritiero o inesatto”; ed i professionisti espressamente si impegnano “a rinunciare al mandato” loro conferito nel caso in cui il  cliente “si rifiuti di condividere un’informazione rilevante o la presenti in modo non veritiero o inesatto”. L’obbligo di trasparenza costituisce, invero, il presupposto fondamentale per l’esito fruttuoso della negoziazione: poiché “senza una condivisione leale e trasparente è inimmaginabile pensare di poter raggiungere un accordo consapevole, basato sugli interessi delle parti e capace di durare nel tempo” (M. SALA, op. cit., pag. 60):

[18] Per un approfondimento sul punto cfr.: A. BAUDINO, La pratica collaborativa: procedure ADR a confronto e nuove prospettive per la risoluzione delle controversie in materia societaria, Seconda parte, in: Il Nuovo Diritto delle Società, G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, n. 2/2019, pag. 199 e ss..

[19] Sebbene l'entrata in vigore di questo nuovo istituto sia stata differita al 1° settembre 2021 dall’art. 5 del DL 23/2020, la procedura è destinata a svolgere un ruolo contrale per consentire alle imprese minori di affrontare e superare la crisi causata dalla pandemia di COVID 19. È pertanto opportuno dare all’argomento un particolare risalto.

[20] L’art 4 del CCII, sotto la rubrica “doveri delle parti”, così recita: “1. Nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e durante le trattative che le precedono, debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza. 2. In particolare, il debitore ha il dovere di: a. illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto; b. assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori; c. gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori.3. I creditori hanno il dovere, in particolare, di collaborare lealmente con il debitore, con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite”.

[21] Ed infatti l’amministratore della società in crisi non deve occultare o dissimulare il dissesto della società: né per assumere nei confronti di terzi obbligazioni alle quali sa che la società non potrà adempiere; né per ottenere da terzi prestazioni a credito. La violazione di tali obblighi può configurare i reati di insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.), ricorso abusivo al credito (art. 325 CCII) e mendacio bancario (art.137, comma 1-bis, T.U. n. 385/1993). La violazione dell’obbligo (previsto in via generale dagli artt. 2214 e ss. c.c.) di regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili (che costituisce un presupposto essenziale per la ricostruzione dei movimenti degli affari e del patrimonio su cui i creditori sociali hanno diritto di rivalersi per ottenere il soddisfacimento dei propri crediti), è sanzionata penalmente nel caso in cui la società sia dichiarata fallita. In questo caso la mancanza, l’irregolarità o l’incompletezza dei libri e delle scritture contabili (ed a maggior ragione la loro distruzione o falsificazione) possono infatti configurare le ipotesi di bancarotta documentale (semplice o fraudolenta) previste dagli artt. 322, comma 1, lett. b), 323, comma 2, 329 CCII. La commissione di false comunicazioni sociali (ex art. 2621 CCII) integra inoltre l’ipotesi di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 329 CCII. La violazione degli obblighi di verità e trasparenza è inoltre sanzionata penalmente dal­l’art. 344 CCII, che punisce il debitore che al fine di ottenere l’accesso alle procedure di composizione delle crisi, aumenta o diminuisce il passivo ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti” o “produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile”.

[22] Dal che si evince che la violazione dell’obbligo di riservatezza integra a carico dei responsabili l’ipotesi di reato prevista dall’art. 622 c.p.

[23] Il testo dell’art. 200 c.p.p. è riportato alla nota n. 9, cui si rimanda.

[24] Il testo dell’art. 103 c.p.p. è riportato alla nota n. 10, cui si rimanda.

[25] R. Ranalli, Le misure di allerta. Dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, Milano, 2019, 187.

[26] A norma dell’art. 2 della Costituzione, “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

[27] L’obbligo di correttezza (e cioè di lealtà, o buona fede in senso oggettivo) è sancito in via generale dall’art. 1175 c.c., che, sotto la rubrica “comportamento secondo correttezza”, stabilisce che “il debitore ed il creditore debbono comportarsi secondo le regole della correttezza”. L’art. 1337 c.c., sotto la rubrica “Trattative e responsabilità precontrattuale”, stabilisce che “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. E l’art. 1375 c.c., sotto la rubrica “Esecuzione di buona fede”, stabilisce che il “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.

[28] Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2016, n. 5762; conf.: Cass. civ., sez. VI, 21 ottobre 2013, n. 23873.

[29] Gli avvocati processualisti, ed in particolare quelli che si sono formati prima delle varie riforme che hanno introdotto nell’ordinamento del processo civile rigorosi termini di decadenza e preclusioni, ben sanno come la tattica processuale poggi in larga parte sulla scelta delle informazioni da fornire e dei tempi con cui fornirle, ai fini di trarne il massimo vantaggio in giudizio sotto il profilo probatorio.

[30] In questo senso, per esempio, D. PISELLI, il quale, dopo aver osservato che il contenuto dell’obbligo di lealtà e buona fede può essere esplicitato “tenendo conto del catalogo dei ‘doveri precontrattuali’ delle parti di una trattativa elaborato dalla giurisprudenza in relazione al citato articolo 1337 c.c.”, evidenzia che “Tale catalogo contiene, principalmente, il dovere di informare la controparte sulle circostanze rilevanti, come le cause di invalidità o inefficacia del futuro contratto, i vizi della cosa oggetto dell’accordo, (….)”, ma esclude, per esempio, “che il dovere di informazione e chiarezza debba spingersi sino alla rivelazione alla controparte di fattispecie impeditive del proprio diritto, come la prescrizione”.

(D. PISELLI, La negoziazione assistita da avvocato, in www.ilcaso.it, pag. 34).

[31] (D. PISELLI, La negoziazione assistita da avvocato, in www.ilcaso.it, pag. 34).

[32] E’ questo il caso, per esempio, della “discovery” prevista dal sistema processuale negli Stati Uniti d’America.

[33] L’art. 88 c.p.c., sotto la rubrica “Dovere di lealtà e di probità”, prevede che “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”, ma non impone un obbligo di “disclosure”. E il dovere di verità, specificamente posto come dovere deontologico a carico dell’avvocato dall’Art. 50 del Codice Deontologico Forense, in realtà non impone l’obbligo di dire il vero (ciò che sarebbe contrario ai suoi doveri di assistenza e al diritto di difesa del cliente), ma impone un ben diverso obbligo di verifica degli elementi di prova addotti dal cliente e l’obbligo di astenersi dal loro utilizzo in giudizio quando risultino falsi (l’art. 50 del CDF, sotto la rubrica “Dovere di verità”, stabilisce che: “ 1. L’avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi. 2. L’avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi. 3. L’avvocato che apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato”.

[34] A norma dell’art. 2697 c.c. (Onere della prova), “1. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 2. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.

[35] A norma dell’art. 2736, c.c. “Il giuramento è di due specie: 1) è decisorio quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; 2) è suppletorio quello che è deferito d'ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, ovvero quello che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti”. L’art. 2738 attribuisce alla dichiarazione resa dall’interrogato efficacia di prova piena, stabilendo che “Se è stato prestato il giuramento deferito o riferito, l'altra parte non è ammessa a provare il contrario, né può chiedere la revocazione della sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso”. L’art. 371 del codice penale sanziona il falso giuramento della parte, stabilendo che “1. Chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. 2. Nel caso di giuramento deferito di ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile”.

[36] L’art. 116 del c.p. (Valutazione delle prove), stabilisce che “Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente (n.d.r.: e cioè in sede di interrogatorio libero), dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”. E l’art. 96 c.p.c. (Responsabilità aggravata), sanziona la lite temeraria, stabilendo che “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.

[37] Per un approfondimento del tema qui sinteticamente affrontato si veda, con riferimento specifico al metodo della pratica collaborativa: D. STALLA, in AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA e C. MENICHINO, Torino, 2017, pag. 161, secondo la quale “Vi sono situazioni in cui le informazioni riservate sono di tale importanza che non è consigliabile tenderle note ad alcuno, neppure dietro patto di segretezza (l’esempio tipico è quello del know-how industriale o commerciale). In tali casi la scelta di un metodo di negoziazione che imponga la trasparenza può non essere consigliata. Vi sono casi invece (e sono  molti) in cui e parti possono considerare opportuno mettere sul tavolo notizie non del tutto note all’altra parte, ma delle quali vi è già comunque una conoscenza generica, ed in cui la scelta di non fornire dettagli all’altra parte corrisponde più ad una strategia di tipo processuale che al reale bisogno di mantenere le informazioni totalmente riservate (si pensi ad esempio al saldo dei conti correnti in una vicenda familiare in cui si discuta di obblighi di mantenimento). In tali casi l’interesse ad evitare i costi e le tensioni generati da un conflitto giudiziale ed il bisogno di mantenere o ricostruire rapporti di reciproco rispetto possono consigliare di accedere ad una negoziazione basata sui principi della trasparenza)”. Ed ancora, più in generale, “occorre sempre ricordare che l’opzione collaborativa non è che uno dei possibili modi per affrontare il conflitto e che è prima responsabilità deontologica dell’avvocato aiutare il cliente ad orientarsi verso il tipo di procedura più adatta per affrontare e risolvere adeguatamente i suoi problemi. Vi sono casi in cui la scelta di tipo processuale è inevitabile: si pensi a tutti i casi in cui il cliente ha necessità di ricevere una tutela ‘forte’, o perché i suoi diritti sono stati violati con modalità che non consentono un approccio transattivo, o perché sussiste una disparità di forze incolmabile (…)”. Per contro “Vi sono casi in cui la finalità di conservazione dei rapporti è più importante dello stretto risultato processuale ipotizzabile ed in cui esiste un margine ampio di discrezionalità nel quale strutturare le scelte: in questi casi la Pratica Collaborativa si pone come metodo ideale per aiutare le parti a gestire il conflitto mantenendo il controllo e la responsabilità del risultato” (D.STALLA, op.cit., pag. 160).

[38] Sul nuovo ruolo dell’avvocato delineato dalle disposizioni che promuovono i metodi alternativi di risoluzione delle controversie, si veda: D. STALLA, in AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA E C. MENICHINO, Torino, 2017, pag. 150 e ss..

[39] la presenza di un avvocato per parte è prevista come obbligatoria solo per le controversie in materia di famiglia, ai sensi dell’art. 5 del DL 132/2014.

[40] A norma dell’art. Art. 68 del CDF (Assunzione di incarichi contro una parte già assistita), “1. L’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale. 2. L’avvocato non deve assumere un incarico professionale contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico non sia estraneo a quello espletato in precedenza. 3. In ogni caso, è fatto divieto all’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto già esaurito”.

[41] Si consideri, infatti, che l’art. 10 del CDF, che sancisce il dovere di fedeltà, stabilisce che “L’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita (…)”. E l’art. 24 del DL 132/2014, sotto la rubrica “Conflitto di interessi”, precisa che “1. L’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale. 2. (…)3. Il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico”.

[42] In questo senso è stato infatti osservato che “il mandato limitato ha molti più vantaggi che inconvenienti: motiva le parti e i professionisti a perseguire l’accordo con ogni ragionevole sforzo (non un accordo qualsiasi, ma un accordo sostenibile e conforme agli interessi delle arti), consolida il clima di fiducia, e protegge la riservatezza” (M. SALA, in AA. VV., La Pratica Collaborativa – Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. SALA E C. MENICHINO, Torino, 2017, pag. 67).

[43] Il Codice deontologico forense, all’art. 51 (La testimonianza dell’avvocato), espressamente stabilisce che “1. L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti. 2. L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi. 3. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo”.

[44] Il Codice deontologico dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, all’articolo 10 (“Riservatezza”), stabilisce infatti che “1. Il professionista, fermi restando gli obblighi del segreto professionale e di tutela dei dati personali, previsti dalla legislazione vigente, deve mantenere l’assoluto riserbo e la riservatezza delle informazioni acquisite nell’esercizio della professione e non deve diffondere tali informazioni ad alcuno, salvo che egli abbia il diritto o il dovere di comunicarle in conformità alla legge”. Il Codice deontologico forense, all’art. 13 (“Dovere di segretezza e riservatezza”) stabilisce che “L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali”. L’art. 28 (Riserbo e segreto professionale) prevede al comma 1, che “È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato”. E il comma 2 soggiunge: “L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato”.

[45] Il problema è affrontato in modo analogo anche nel caso della procedura di composizione assistita della crisi, con alcune particolarità connesse alle finalità dell’istituto. In analogia a quanto disposto in materia di mediazione e negoziazione assistita, l’art. 21, comma 4 del CCII stabilisce infatti che “Gli atti relativi al procedimento e i documenti prodotti o acquisiti nel corso dello stesso possono essere utilizzati unicamente nell'ambito della procedura di liquidazione giudiziale o di un procedimento penale”. La norma non menzione espressamente le “informazioni”, ma il divieto circa l’utilizzo degli atti e documenti e la regolamentazione in tema di riservatezza e di segreto (imposti a carico degli organi e dei professionisti che partecipano alla procedure) induce a ritenere che il divieto di utilizzo in giudizio (salvo i casi della procedura di liquidazione giudiziale o del procedimento penale avviati in caso di mancato raggiungimento di una composizioni stragiudiziale o concordataria) si estenda anche alle informazioni acquisite nel procedimento di composizione della crisi.

[46] Le riflessioni che seguono riprendono l’ottimo studio svolto sul punto da D. DALFINO, cui si rimanda per i necessari approfondimenti e per gli ampi riferimenti normativi (in particolare alla disciplina comunitaria), dottrinari e giurisprudenziali, cui si rimanda per i necessari approfondimenti (D. DALFINO, La mediazione civile e commerciale, in Commentario al C.P.C., a cura di S. CHIARLONI, Zanichelli, Bologna, 2016, p. 418 e ss.). L’autore affronta il problema dei limiti oggettivi all’obbligo di riservatezza con specifico riferimento alla mediazione, ma le stesse considerazioni si attagliano alle altre procedure ADR non aggiudicative che, come rilevato, sono disciplinate da disposizioni analoghe in tema di riservatezza.

[47] In questi termini: D. DALFINO, La mediazione civile e commerciale, in Commentario al C.P.C., a cura di S. CHIARLONI, Zanichelli, Bologna, 2016, p. 419 e ss. Il passo è riferito alla mediazione, ma le stesse considerazioni si attagliano alle altre procedure ADR non aggiudicative che, come rilevato, sono disciplinate da disposizioni analoghe in tema di riservatezza.

[48] D. DALFINO, Op. e loc. cit.

[49] In questo senso vedi ancora: D. DALFINO, Op. e loc. cit.

[51] In realtà, il divieto è sancito in modo espresso e in via generale dalle norme che disciplinano la mediazione. L’art. 10, comma 1, del Dlgs. 28/2010 stabilisce infatti che “Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”. Le disposizioni che disciplinano le altre procedure ADR (richiamate nei paragrafi introduttivi) si limitano invece a sancire il divieto di deporre in giudizio dei componenti degli organi preposti alla procedura e dei professionisti delle parti. Il divieto di dedurre a prova (in giudizio) il contenuto delle dichiarazioni e informazioni acquisite nell’ambito della procedura ADR costituisce tuttavia una conseguenza logica e necessaria del principio di inutilizzabilità in giudizio di tali dichiarazioni/informazioni.

[52] Ed infatti, “se il limite operasse soltanto per determinati soggetti, potrebbe essere agevolmente aggirato chiamando a testimoniare coloro che, pur non contemplati dalla norma stessa, fossero venuti a conoscenza dalle parti – anche in via confidenziale e, non è da escludere, artatamente – di quanto emerso nel procedimento” (D. DALFINO, Op. e loc. cit.).

[53] In questo senso: D. DALFINO, Op. e loc. cit.

[54] D. DALFINO, Op. e loc. cit.

[55] Ancora D. DALFINO, Op. e loc. cit